La filosofia
Il corpo è il limite, è il confine tra l’interiorità e l’esteriorità, due abissi, due mari, due profondità insondabili. L’essere e gli essenti. Viviamo di interpretazioni di questi due universi. Ma, nell’epoca della Tecno-scienza, il complesso delle interpretazioni dell’Occidente ormai non dice più nulla, non interpreta più nulla. Il linguaggio della Tradizione non dice più nulla di quei due universi.
Perché la Filosofia? Perché “La tecno-scienza guarda l’oggetto, la filosofia guarda quel guardare”. (Emanuele Severino). In scena ci sono, quindi, tre soggetti che interpretano: chi guarda, la cosa guardata, e chi guarda quel guardare. È la filosofia dunque che sembra indicare il punto di partenza di una via, l’inizio di una strategia. “Il fatto che la letteratura e l’arte, ancora si trattengono sul problema del senso dell’essere e quindi dell’uomo, senza sporgere sul problema della possibilità che hanno l’uomo e il mondo di continuare ad essere, contribuisce a quel “nichilismo passivo” che Nietzsche denunciava come nichilismo della rassegnazione. La tecnica finisce in questo modo col sottrarre all’uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità, divenuta ormai inadeguatezza psichica, si nasconde per l’uomo il massimo pericolo, così come nell’ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza. Questo ampliamento psichico, se da un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all’uomo che la tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale all’esistenza umana, si traduca in causa dell’insignificanza del suo esistere”. (Umberto Galimberti). Inadeguatezza psichica che porta al “puntare i piedi”, come direbbe Emanuele Severino, ma “ampliamento psichico come un continuo prendere coscienza”. (Massimo Cacciari). L’ampliamento della capacità di comprendere è la flebile speranza. Qual è, quindi, lo sguardo più efficace per cogliere il senso delle cose? Ma come intendiamo il guardare? Diciamo che l’importante non è tanto ciò che guardiamo, quanto da dove guardiamo, cioè l’osservatorio, e dato che il nostro osservatorio coincide con la nostra strategia, ci dobbiamo chiedere da quale strategia osserviamo? Da quale strategia interpretiamo? Ma se: sempre “l’interpretare è fraintendere” (Cacciari), dobbiamo chiederci: da quale strategia fraintendiamo? Come e dove, l’“Architetto della cultura” pensa di trovare quindi, la flebile speranza? Come, colui che è incessantemente impegnato nella dolorosa e drammatica cura del proprio osservatorio, caparbiamente tenuto privo di mezzi per uscire da sè stesso, può riuscire a liberarsi della grande trappola del Castello kafkiano?
L’ampliamento della capacità di comprensione, la flebile speranza, non può essere una risposta alla Speranza progettuale, ma è sicuramente un invito ad accrescere, nella coscienza del linguaggio-corpo, la consapevolezza dell’operare abitando il luogo delle contraddizioni della post-metropoli.
Estratto dall’articolo: Massimo Fazzino - “Nomadi prigionieri della città ideale. Nel segno della Filosofia”. In: “Arte e Critica” n. 64 – Settembre/Novembre 2010.
"Nella tradizione dell’Occidente la città, la casa, il tempio, il teatro, lo stadio, la chiesa, il castello non vogliono esistere in eterno, e tuttavia vogliono rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo e quindi intendono essere il meno caduchi possibile e presentarsi essi stessi con una certa aura di eternità. Volendo rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo, vogliono esserne il simbolo. L’uomo trova un riparo nelle proprie abitazioni non perché riceva da esse certe prestazioni, ma perché è il loro essere simbolo dell’Eterno che egli, abitandole, si sente al riparo.”
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E poiché nella cultura tradizionale la regola assoluta e immutabile coincide con la bellezza, nell’architettura moderna (e in ogni altra forma di arte) la bellezza della figura non appare più come valore assoluto, ma come la configurazione che le opere dell’uomo vengono ad assumere in rapporto ai suoi scopi. Ma quando l’episteme tramonta, la decorazione perde tutto questo imponente spessore semantico e si presenta come il superfluo e l’estrinseco da cui il “Movimento moderno” dell’architettura intende liberarsi totalmente in nome del principio che “la forma segue la funzione”. È il modo in cui si vuol vivere negli spazi interni degli edifici (la “funzione”) a determinare “l’involucro” (la “forma), il quale dunque diventa una configurazione che lascia liberi gli spazi interni. Nel “Movimento moderno”, dove la libertà spaziale è essenzialmente connessa alla libertà democratica e all’architettura popolare, la libertà della pianta, della sezione e della facciata è una delle caratteristiche architettoniche più visibili (come la libertà metrica e sintattica della poesia, la libertà dei rapporti cromatici-figurativi e dei rapporti melodico-tonali). Tale libertà esprime la liberazione dalle strutture immutabili dell’episteme e dunque dalla concezione epistemica della matematica e della geometria. E, insieme, tale libertà è resa possibile dalle nuove tecniche del ferro e del cemento armato, che si costituiscono all’interno della progressiva affermazione della tecnica guidata dalla scienza moderna, all’interno cioè della potenza che diventa predominante proprio perché si fa guidare da un sapere che si rende sempre più conto che la crescita della potenza sul mondo è direttamente proporzionale all’entità della libertà, ossia del rifiuto della concettualista epistemica.
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Le strutture in ferro e vetro della città aperta rendono invece possibile quella elevata permeabilità visiva tra interno ed esterno che esprime sul piano architettonico la necessità che il riparo non sia a priori chiuso in sé, ma quell’apertura all’esperienza, una delle cui forme più caratteristiche è data dal metodo sperimentale della scienza moderna – dal metodo che, aperto agli insegnamenti dell’esperienza, consente un dominio del mondo più reale di quello ottenuto dal sapere incontrovertibile e chiuso in sé dell’episteme. E il grattacielo, a sua volta, rompe la volta architettonica tradizionale e si protende nei liberi spazi del cielo per aggredirli e dominarli realmente e non per sottometterli alla onirica e dunque fallimentare configurazione epistemica dello spazio".
Brani tratti da: Emanuele Severino, “Tecnica e Architettura”.